lunedì 30 marzo 2015

ESSERE MEDIATORI



















DIALOGHI CON  J. MORINEAU 

Non c’è felicità senza pace e non c’è pace senza giustizia. Aristotele affermava che il fine supremo delle “buone azioni che ogni essere umano può compiere nella sua vita,” e, quindi, anche l’obiettivo primario della giustizia, è la felicità.
Sfortunatamente, tante volte, la Giustizia non riesce a rispondere oggi questo obiettivo per mancanza de mezzi e anche perché ha perso di vista la finalità originale della sua funzione.
Dopo la rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo, la legge positiva è diventata la risposta al bisogno di giustizia, ma, si sa, non sempre la norma giuridica contribuisce a creare “la giustizia”: soprattutto quando è maggiore il caos e più alto il conflitto, le soluzioni giuridiche possono risultare insufficienti e non soddisfare in maniera adeguata le attese delle persone . Per questo motivo, nel 1983, l’allora Ministro della giustizia francese, Robert Badinter, ha proposto una forma alternativa alla giustizia repressiva e ha dato impulso alla mediazione. Sono stata incaricata di creare la prima esperienza di mediazione penale a Parigi e una nuova struttura per accogliere i casi inviati dalla procura. Non conoscevo nulla della mediazione e, in Europa, vi erano ben poche esperienze nel settore, eccezion fatta per quelle dell’ADR (Alternative Dispute Resolution) nei paesi anglosassoni e dell’l’ombudsman en Scandivania.

Di fronte del conflitto, che può condurre al caos, alla separazione, alla divisione, siamo impotenti. È un’esperienza comune a molti di noi che ci mette di fronte al senso della vita. In fine la morte è la nostra sola certezza.
La separazione è la prima prova tragica della vita, perché alla nostra nascita veniamo separati e il risultato immediato è un grido; questa “identità” di separazione ci conduce a cercare, durante tutta la nostra esistenza, la possibilità di ritrovare l’altra parte di noi “perduta”, per essere uno. È un lungo cammino, condiviso con tutta l’umanità. Coscienti della forza di questa sofferenza, i Greci avevano sviluppato modi di educazione attraverso il mito e il teatro della tragedia in cui ci sono numerosi esempi che sono specchio di questo vissuto di separazione.
Tuttavia, nel corso del tempo abbiamo perso questa memoria e abbiamo costruito una società che dall’era dell’illuminismo (ma già del rinascimento), e ancor di più negli XX secolo, ha preteso di risolvere i conflitti e controllare le vicende umane con la forza della ragione. Il crollo delle torri gemelle a New York e, con esso, la caduta del “sogno americano di imporre la pace nel mondo”, ha disvelato che la pretesa di realizzare questo sogno, con la sola forza della logica economica e di un equilibrio delle grandi potenze mondiali, è un fallimento.
Viviamo in una società in cui assistiamo al moltiplicarsi delle occasioni di violenza e guerra, una società che anziché incamminarsi alla ricerca della felicità e creare le condizioni per una convivenza pacifica, sembra dirigersi verso l’autodistruzione “planetaria”. Abbiamo bisogno di prendere coscienza che viviamo una trasformazione epocale sola paragonabile a quella del passaggio dall’era dell’uomo nomade a quella dell’uomo sedentario.
A fronte di questa situazione, possiamo cercare aiuto nel passato della cultura greca all’ origine della nostra cultura. I greci, avevano elaborato una educazione permanente alla saggezza per permettere di avvicinarci alla felicità. La mia formazione classica mi ha ricordato lo spazio dato al grido della tragedia greca. Era uno spazio concepito come mezzo educativo per offrire uno specchio della nostra tragedia umana, dei tanti conflitti che hanno distrutto e possono distruggere la nostra vita .
L’apprendimento della mediazione riprende la pedagogia della tragedia greca, per potere, imparare a vivere in armonia con noi stessi e con gli altri : è un compito della vita.
La mediazione raccoglie il grido di nostra società “autodistruttiva”, perché abbiamo bisogno innanzitutto di incontrare la guerra che è dentro il nostro cuore. Noi creiamo purtroppo la morte e non la vita. Siamo impotenti di fronte agli ostacoli. La mediazione va aldilà della risoluzione di un conflitto, perché esso è tante volte un pretesto. Se accettiamo di incontrare la sofferenza (che sempre è un’ esperienza di separazione) e, attraverso di essa, la nostra realtà umana, possiamo aprirci alla parte profonda, più elevata : la nostra anima. La mediazione umanistica restituisce all’uomo la possibilità di vivere la sua completezza attraverso il concetto di uomo dei Greci: corpo, anima, spirito, per vivere in armonia con se stesso e con gli altri e… il pianeta. Allora c’è la possibilità di riscoprire la bellezza della vita, che è felicita : un dono della creazione e del creatore: siamo nati a immagine della bellezza del creatore, della creazione. E sempre possibile ritrovarla.

In questo senso sarebbe fondamentale proporre la mediazione umanistica ai più giovani fin dall’asilo, e durante tutto il percorso educativo, come percorso di scoperta dell’umanità e di educazione alle relazioni. Abbiamo dimenticato, nell’ambito dei programmi della scuola, di insegnare a divenire uomini. L’ insegnamento, al liceo classico, della cultura classica offre importanti esempi di ricerca e apprendimento, finalizzati a vivere in armonia; tuttavia, questo ha bisogno di essere legato al vissuto degli alunni e può essere fatto attraverso l’esperienza della mediazione umanistica.


Il procuratore del tribunale di Parigi ci aveva immediatamente affidato casi complessi di violenza.
Quando mi sono trovata di fronte a persone che avevano agito la violenza, che nutrivano sentimenti di odio e di vendetta, non ero in grado di trovare alcuna risposta… potevo solamente incontrare il grido, la “chiamata” di una sofferenza devastante, da ambo le parti del conflitto. L’esperienza della tragedia greca si è imposta.
Quindi, ho provato ad offrire una forma di mediazione che ripercorre le tappe della tragedia : teoria, crisi e catarsi, per dare al grido alla possibilità di cambiamento finale. Questo “modello di mediazione” si è manifestato come un’opportunità per procedere verso l’obiettivo di trasformare la disperazione della separazione, in una nuova vita.
Questo approccio ha aperto una nuova strada perché abbiamo potuto per primi sperimentare, con questa modalità, una forma di giustizia nuova: trasformativa/riparativa/ ristorativa delle origini della esperienza.
È necessario iniziare a dare la parola al corpo che soffre, che patisce le emozioni che creano malattie. Ho recentemente svolto uno stage presso un ospizio di Brescia, una delle prime esperienza di cure palliative in Italia; una suora mi diceva di tanti giovani che sono “ospiti” lì..: questa è l’effetto della nostra società autodistruttiva : la nostra anima grida e il corpo si disintegra. Oggi tanti giovani si ritrovano in fin de vita con gli anziani. È uno scandalo.
La malattia prende tante volte la sua origine nel profondo dell’anima attraverso le emozioni. Abbiamo dimenticato di vivere corpo, anima e spirito. Tanti di noi ignorano la dimensione spirituale. L’abbiamo allontanata perché l’abbiamo legata con la religione, e tante volte il suo rifiuto ha fatto perdere tutto il senso della dimensione spirituale. L’esperienza della mediazione mi ha fatto scoprire che è questo livello più elevato, delle aspirazioni, dei valori – verità, dignità, libertà, giustizia… – che apre alla dimensione spirituale in cui l’uomo può trovare la trasformazione che conduce alla pace. I giovani, educati oggi al consumismo, al materialismo hanno purtroppo perso il senso dei valori e condividono il vuoto esistenziale della società con tutte le sue malattie.


Ritrovare il concetto dell’ uomo dei greci : corpo anima e spirito come un vissuto e non un concetto. Lavorare su ciascuna parte. Il corpo non dove essere ignorato, l’anima dove essere accolta con tutte le sue emozioni, per aprirsi al livello superiore che tocca un’attesa, un ideale, uno slancio verso ciò che il bello della vita.
Questa è la parte più elevata dell’anima, che si apre al livello spirituale e permette di passare dalle tenebre alla luce. Tutti abbiamo questa dimensione, indipendentemente dal credo, dalla religione, anche gli atei…tutti abbiamo questa attesa di infinito, un bisogno di ordine, di una certa forma di ordine interiore.
Quando nella quotidianità delle relazioni ci allontaniamo da questa dimensione “più alta” siamo guidati dalle nostre emozioni e questo crea il conflitto e viene la sofferenza, sia interiore che interpersonale. Tanti di noi portiamo maschere, ruoli perché siamo incapaci di vivere la nostra completezza : corpo, anima, spirito. Viviamo attraverso un personaggio esteriore dentro l’ignoranza della nostra autenticità. Nei momenti di maggiore sconforto e di profondo isolamento, il grido e le lacrime sono il solo linguaggio che l’anima sconvolta ha per esternare il proprio bisogno di sua autenticità. La crisis , oggi, non è solo economica ma soprattutto esistenziale.
Per ascoltare il grido, per disvelare il volto dell’altro oltre la maschera, per essere mediatori dell’anima, è necessario, prima di tutto, ascoltare il grido che è tante volte silenzioso e prendere coscienza della maschera che portiamo. Il conflitto è un’occasione privilegiata per poterlo fare e permette di incontrare nell’altro se stesso, la “nostra comune umanità”. Possiamo insieme scoprire spazi di silenzio, perché il grido, che viene dai tempi primordiali appartiene a tutta l’umanità, viene da un livello profondo interiore.
Quella che apprendiamo durante uno stage alla mediazione è la concretizzazione di questo cammino attraverso lo sviluppo di diverse tappe di passaggio, dal vissuto del corpo, all’anima e allo spirito. Lo spazio di espressione del grido è una necessità perché viene dall’origine della vita, ha bisogno di dirsi e si ritrova in tutte le situazioni di conflitto. L’espressione delle nostre emozioni è senza fine perché è legata al passato, a la sofferenza di mia madre, di mia nonna, di Eva, fin dall’inizio della nostra storia umana. Potenzialmente è un grido senza fine… Il passaggio al livello dei valori è essenziale per liberare e restituire la parola della verità. E questo è un momento “magico”, perché l’esternazione delle emozioni è avvenuta con grande agitazione, ma quando si dà parola ai valori , si arriva a una pacificazione, e il perdono diviene possibile. Nei confliggenti c’è un grande bisogno di autenticità, di giustizia, di verità… Nell’offrire a entrambi la stessa opportunità di nominare i valori, si costruisce un primo ponte verso il riconoscimento dell’altro come essere umano al pari di noi. Questo é essenziale. La guerra può finire.